«Ditegli che questa è la fine per me, ma anche l’inizio. Insieme a lui credo nel principio della nostra fratellanza universale cristiana che si eleva al di sopra di ogni interesse nazionale e credo che la nostra vittoria è certa…». Così Dietrich Bonhoeffer, l’8 aprile 1945, – giorno prima della sua impiccagione – nel messaggio affidato a un compagno di prigionia e destinato all’amico George Bell, vescovo anglicano di Chichester, conosciuto nel 1933. Era un saluto sprigionatosi di domenica, dal cuore di un uomo libero, calato nel mondo e nella signoria di Gesù Cristo, un cristiano consapevole di un destino di eternità.
Era una domenica quando le pronunciò e Bonhoeffer era in viaggio verso il lager di Flossenbürg. L’indomani dopo l’alba fu subito giustiziato: nato a Breslavia, nel 1906, non aveva neanche quarant’anni. Ci fu anche un testimone oculare che raccontò quelle ultime sequenze di vita, settant’anni fa. Era il medico del campo. Uno che di lui non sapeva niente. E che ha lasciato scritto altre parole capaci di commuoverci: «Attraverso la porta semiaperta in una stanza delle baracche vidi il Pastore Bonhoeffer, prima di levarsi la sua divisa carceraria, inginocchiarsi sul pavimento per pregare Dio con fervore. Fui profondamente toccato dal modo in cui questo uomo amabile pregava, così devoto e sicuro che Dio udisse la sua preghiera». E ancora: «Sul posto dell’esecuzione, disse un’altra breve preghiera e quindi salì gli scalini verso il patibolo, coraggioso e composto. La sua morte seguì dopo pochi secondi. Nei quasi cinquant’anni di professione medica, non ho mai visto un uomo morire così totalmente sottomesso alla volontà di Dio».
Bonhoeffer, «teologo, cristiano, contemporaneo», per usare la sintesi del suo biografo Eberhard Berthge, certamente è stato uno dei rari uomini di Chiesa che – senza dimenticare una fugace simpatia nel 1920 per il nazionalismo che fu presto in grado di spazzare via–, ben presto scese direttamente nell’agone politico e nella resistenza al Male hitleriano. Bonhoeffer, però, è stato l’uomo che, soprattutto, ha motivato con il suo essere cristiano quelle sue scelte. Come aveva scritto nel 1934 a Valdemar Ammundsen, il vescovo danese direttore del Weltbund für internationale Freundschaftsarbeit der Kirchen (la Federazione mondiale per la promozione dell’amicizia internazionale fra le Chiese): «Qui, anche proprio nella nostra posizione verso lo Stato, si deve parlare in modo del tutto franco, per amore di Gesù Cristo e della causa ecumenica. Dev’essere chiaro – per quanto terribile sia – che di fronte a noi sta questa decisione: o nazionalsocialisti oppure cristiani».
Da quella data alla morte sarebbero passati per Dietrich altri dodici anni costellati di scritti densi (molti quali resi pubblici solo recentemente), che rendono conto del suo impegno nel Kirchenkampf, nella lotta fra la Chiesa confessante antinazista e la Chiesa dei Deutsche Christen (i cristiano-tedeschi sostenitori del nazionalsocialismo), ma che pure offrono uno spaccato storico- politico e le direttrici di un dibattito teologico- culturale ben oltre la sua figura . Un periodo fitto di lettere, specie dall’inizio degli anni Quaranta, a testimoniare una vasta rete di interlocutori e di conoscenze, ma anche un’ampia irradiazione di pensiero sulla premessa di una profonda riflessione esistenziale.
Ben documentata, ad esempio, nella silloge arrivata in libreria a cura di Alberto (Scritti scelti 1933-1945, Queriniana, pagine 920, euro 93) dedicata proprio all’“ultimo Bonhoeffer”, lavoro che conclude la serie dei dieci volumi delle Opere meritoriamente edita da Queriniana. Dove trovano spazio tanti elementi del suo impegno. La questione ecumenica, che assorbì Bonhoeffer sia sul piano del dialogo fra le Chiese sia su quello dell’elaborazione teologica. L’approfondimento biblico, centrale, dal periodo nel seminario clandestino di Finkenwalde a quello – diciotto mesi sino all’ottobre ’44 – nel carcere berlinese di Tegel, prima di essere internato a Buchenwald. E, ancora, la riflessione sull’etica sempre più urgente (con la scelta personale della cospirazione) e la questione della sequela di Cristo in una condizione storica intrisa di violenza. Oppure la riflessione sul significato di una fede personale declinata nel mondo divenuto adulto che ha eliminato l’ipotesi del «Dio tappabuchi».
Pagine e pagine innervate da una fede spesa a dare concretezza alla Parola dentro la storia, a servire la verità che «rimane pur sempre il servizio più grande che si possa tributare all’amore nella comunità di Cristo». Quanto basta per spiegare il pastore teologo del confronto con la modernità, della fedeltà alla terra, dell’obbedienza al Vangelo, della caritasancorata alla trascendenza, che si fa cospiratore, convinto che la Rivelazione comporta più una fede che una religione, e comunque esige una responsabilità personale nel farsi carico dei destini di ogni persona. Se necessario assumendo la Croce. Per gli altri. Per amore.
(Da “L’Avvenire”, 7 aprile 2015)