A Milano, la seconda città
d’Italia e cuore della sua crescita economica, ci sono più cani che nuovi nati.
Il capoluogo lombardo ha perso metà delle nascite in dieci anni, passando da 17
mila nel 2006 a meno di diecimila nel 2017. Quando parliamo di Milano non
parliamo di una città in crisi, anzi: così come la nostra Emilia-Romagna può
vantare risultati eccezionali nel campo dell’esportazione e della piena
occupazione, la capitale ambrosiana vive una vivacità e un dinamismo economico
che la rende ancora una volta nella storia autentica locomotiva nazionale.
Il nostro Nord è uscito dalla
fase più grave della crisi mondiale, eppure – tra molti riconoscimenti in tema
di qualità dei servizi pubblici e di preziose forme di resilienza nel campo
dell’educazione e del welfare privato – il fantasma della “peste bianca”, di
cui scriveva nel 1974 Pierre Chaunu evocando in forma letteraria il rapido e
inatteso tramonto dell’Occidente, si aggira nelle capitali come nelle province
di un continente che guarda ovunque purché non sia costretto a osservare
all’altezza degli occhi la realtà.
Una realtà che ci ha consegnato,
al termine del secolo più sanguinoso della storia dell’umanità, il privilegio
del sogno dell’edificazione di una società finalmente libera dai conflitti,
pacificata tra gli esseri, equa nella convivenza sociale, libera nella
manifestazione del proprio sentimento religioso – e che per converso, senza che
i primi topi iniziassero a comparire nell’immortale romanzo di Albert Camus, si
ritrova oggi gravemente affetta da un virus potenzialmente mortale, e
potenzialmente mortale per sempre.
Abbiamo letto tutti gli ultimi
dati Istat relativi alle dinamiche demografiche italiane.
Neppure più l’elevato tasso di
natalità assicurato dalle coppie di stranieri riesce a compensare il crollo
della natalità tra italiani. Il biennio 2017-2018 è analogo a quello del secolo
precedente, a Grande Guerra in corso, e alla terribile epidemia di “spagnola”
che vi fece seguito.
Il resto degli indicatori
conferma una semplice constatazione: gli italiani hanno smesso di generare
figli e questa colossale frenata nelle nascite va creando le condizioni per uno
stravolgimento epocale nell’assetto della società: sia sufficiente evocare il crack
del sistema pensionistico nazionale, più vicino di quanto analisti e governanti
tendano a riconoscere. “L’Italia – ha osservato il prof. Blangiardo, docente di
Demografia all’Universita di Milano-Bicocca – sembra un paese che non sia più
in grado di autosorreggersi”.
Le previsioni Istat vengono
riaggiornate anno dopo anno. Un calo di 400mila italiani l’anno, previsto tra
trent’anni, oggi è invece alle porte. Gli italiani figli di italiani
attualmente sono 55 milioni – un numero che evoca gli anni Settanta. Gli over
65enni rappresentano il 22,8% della popolazione e sono in rapida crescita.
Qualora le tendenze in corso vengano confermate, nel volgere di una sola
generazione dovremo familiarizzare con concetti quali “civiltà fantasma”, in
voga in Giappone, il paese più longevo al mondo, dove il numero dei bambini è
inferiore al 10% della popolazione e dove gli asili vengono riconvertiti in
strutture per anziani (più del 45% dei giapponesi è over 65).
Sarebbe illusorio credere che il
problema riguardi solo noi italiani. Un altro esempio, per essere chiari: nei
paesi dell’Europa dell’Est, a suo tempo appartenuti al blocco sovietico, il
numero degli abitanti dalla riconquistata libertà ad oggi è calato di quasi 20
milioni di unità. Possibile? È ciò che è avvenuto. E la fuga degli abitanti dal
blocco di Višegrad indica un trend che si estende dal Baltico al Mar Nero:
anche l’Europa orientale sta fuggendo da se stessa e anche di essa si parlerà
come di una “civiltà fantasma” nel volgere del presente secolo.
Il solo tentativo su larga scala
sinora compiuto per contrastare il crollo demografico da popoli in difficoltà è
stato messo in opera circa un decennio fa dalla Federazione Russa, con
risultati controversi: forti sostegni cash alle famiglie che procreano e innalzamento
drastico dell’età pensionabile. A ciò sono state accompagnate politiche per un
più corretto stile salutare da parte dei maschi russi, non proprio una
caratteristica tradizionale. Qualche risultato positivo, nell’inversione
dell’indice demografico, si è visto.
E in Italia? Per paradosso, il
tema del suicidio identitario del Paese è espulso dal dibattito politico e dal
dibattito pubblico. Si discetta molto di preferenze singolari ma non ci si
accorge che la peste bianca ha ormai colpito l’intera penisola. “Mettere su”
famiglia appare un’impresa disperata e, comunque, nelle mille difficoltà della
società atomizzata, è andato in gran parte smarrendosi il valore aggiunto della
famiglia tradizionale fatto di aiuto reciproco, di mutuo sostegno, di solidarietà
permanente.
Risposte istituzionali e sociali
a sostegno della famiglia vanno accompagnate da una risposta personale: siamo
ancora capaci di affrontare la fatica e le conseguenze che comportano la
maternità? Il dono di un figlio, la scelta gratuita di essere madri e padri ha
implicato per secoli risposte ataviche. Oggi, dinanzi all’enormità di una vita
che nasce, persino un piccolo sacrificio appare insormontabile. C’è molto da
fare, per tutti.
“Fare un figlio” o “prendo un cane” – con tutto l’amore e la gratitudine verso i nostri compagni domestici – è una scelta la cui distanza anche solo sul piano del linguaggio va assottigliandosi. E indica con precisione il campo nel quale oggi i nostri pensieri vadano muovendo.
Ottavia Soncini
Articolo pubblicato sul settimanale cattolico reggiano “La Libertà” del 3 luglio 2019